
Autore: Angelo Cafà
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17 agosto 2025
Il 9 giugno 2025 è entrato in vigore il nuovo Decreto Sicurezza (D.L. n. 48/2025), un provvedimento che ha immediatamente acceso il dibattito pubblico e giuridico. Come già avvenuto in passato con i cosiddetti “Decreti Salvini”, anche questa volta il legislatore ha scelto la strada del diritto penale come strumento privilegiato per rispondere a fenomeni complessi e socialmente rilevanti: terrorismo, criminalità organizzata, disordini urbani e gestione della popolazione detenuta. Da un lato, il decreto viene presentato come un rafforzamento indispensabile per garantire maggiore sicurezza e dare una risposta concreta all’opinione pubblica. Dall’altro, però, non mancano le critiche di chi vi legge l’ennesima manifestazione di un diritto penale d’emergenza, caratterizzato dall’aumento delle pene e dalla creazione di nuove fattispecie incriminatrici, senza un reale progetto di riforma organica. Il cuore del decreto è rappresentato dall’inasprimento delle pene e dall’introduzione di nuove figure di reato, pensate per colpire più duramente episodi di violenza di piazza, resistenza a pubblico ufficiale e condotte collegate al terrorismo. Accanto a queste scelte punitive, il testo dedica ampio spazio anche alla disciplina dei beni sequestrati e confiscati, rafforzando i poteri dello Stato nella gestione del patrimonio sottratto alla criminalità organizzata. Un altro settore particolarmente toccato è quello penitenziario: il decreto prevede infatti una stretta sull’accesso ai benefici e sui colloqui dei detenuti, soprattutto se condannati per reati gravi. Anche la sicurezza urbana è stata oggetto di intervento, con l’estensione dei poteri in capo a polizia ed enti locali. Nonostante la portata delle novità, la reazione della Corte di Cassazione è stata tutt’altro che benevola. Secondo la Suprema Corte, il decreto utilizza in modo eccessivo e generalizzato lo strumento penale, contraddicendo il principio dell’extrema ratio, che dovrebbe invece limitarne l’impiego ai soli casi in cui altri strumenti normativi risultino inefficaci. In più, le osservazioni dei giudici di legittimità mettono in luce il rischio di un diritto penale simbolico: un diritto che promette maggiore sicurezza attraverso l’inasprimento delle pene, ma che nella realtà dei fatti produce solo un ulteriore aggravio per il sistema carcerario, già segnato da condizioni spesso censurate anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non mancano, infine, dubbi di natura costituzionale: il decreto potrebbe violare il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione e la funzione rieducativa della pena di cui all’articolo 27. Il Decreto Sicurezza 2025 non rappresenta un episodio isolato, ma si inserisce in un percorso già avviato con i provvedimenti del 2018 e del 2019, noti come “Decreti Salvini”. Quei testi avevano puntato molto sul tema dell’immigrazione, restringendo le forme di protezione umanitaria, inasprendo le sanzioni per reati di piazza e attribuendo maggiori poteri ai prefetti e alle forze dell’ordine. Il decreto attuale, pur muovendosi sulla stessa linea di un diritto penale sempre più invasivo, sposta però il baricentro: l’attenzione non è più concentrata prevalentemente sull’immigrazione, ma sul contrasto al terrorismo, alla mafia e sulla disciplina dei beni confiscati. Inoltre, interviene direttamente sul regime penitenziario, restringendo ulteriormente gli spazi per misure alternative e benefici. La continuità è evidente: ancora una volta, la risposta del legislatore a problemi complessi non è un rafforzamento delle politiche sociali o preventive, ma un aumento delle sanzioni penali e una maggiore rigidità del sistema carcerario. Sul piano applicativo restano molti interrogativi. Come inciderà questo inasprimento sul già drammatico problema del sovraffollamento carcerario? Quali effetti avrà sui procedimenti in corso, soprattutto alla luce del principio del favor rei? E ancora: quante delle nuove norme supereranno il vaglio della Corte Costituzionale o della stessa Corte EDU? Sono domande che non possono essere liquidate in fretta, perché riguardano il delicato equilibrio tra la necessità di garantire sicurezza e la tutela dei diritti fondamentali della persona. Il Decreto Sicurezza 2025 conferma una tendenza ormai consolidata: in Italia, ogni emergenza sociale sembra trovare nel diritto penale la risposta privilegiata. Ma è davvero questa la strada giusta? Il rischio è quello di costruire una giustizia penale che diventi soprattutto strumento di rassicurazione politica, più che di reale tutela dei cittadini. La sicurezza, infatti, non si misura solo con l’aumento delle pene o con nuove fattispecie incriminatrici, ma anche – e soprattutto – con politiche capaci di prevenire i fenomeni criminali, rafforzare la coesione sociale e rendere effettiva la funzione rieducativa della pena. Il dibattito resta aperto, e il ruolo degli avvocati, dei giudici e degli studiosi è oggi più che mai fondamentale per non ridurre la giustizia penale a semplice retorica emergenziale.

Autore: Angelo Cafà
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3 maggio 2025
Gela. Era accusato di aver violato la misura della sorveglianza speciale. Le forze dell’ordine non lo trovarono nella sua abitazione, durante l’orario previsto. Al termine del dibattimento, però, è stata disposta l’assoluzione per il sessantenne L L. C., che ha diversi precedenti penali alle spalle e successivamente ai fatti venne arrestato per un tentato omicidio, a Scavone (è stato condannato in primo grado). Rispetto all’accusa di aver violato la sorveglianza speciale, il legale di fiducia, l’avvocato Angelo Cafà, ha riferito che in realtà L. C., al momento del controllo, non aveva lasciato lo stabile dove vive ma si era solo spostato in un altro alloggio per assistere la madre. Secondo la difesa, non ci furono conseguenze né venne disposto l’aggravamento. Tutte ragioni che hanno condotto a richiedere l’assoluzione, con la successiva decisione favorevole del giudice. fonte: quotidianodigela.it

Autore: Angelo Cafà
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3 maggio 2025
Gela. La normativa nazionale sul reddito di cittadinanza va disapplicata in favore di quella europea. Il giudice penale del tribunale di Spoleto si è pronunciato in questi termini nel caso di un cittadino straniero, trentenne, che ha vissuto in città, lavorando come bracciante agricolo. Dichiarò di essere residente in Italia da almeno dieci anni, per avere l’accesso al beneficio del reddito di cittadinanza, in mancanza di un’occupazione stabile. Dagli accertamenti emerse però che il periodo di residenza in Italia era inferiore ai dieci anni. È finito a processo. Il giudice lo ha assolto, accogliendo le indicazioni avanzate dal suo difensore, l’avvocato Angelo Cafa’. Il legale ha fatto riferimento a una decisione della Corte di giustizia europea che individua la norma italiana come in contrasto con quella Ue, che invece prevede la libera circolazione dei cittadini senza un vincolo circa la permanenza in un solo Stato. Il magistrato ha emesso un dispositivo favorevole di “insussistenza del fatto”, disapplicando appunto la disciplina nazionale in favore di quella Ue. La procura di Spoleto, in aula, ha concluso a propria volta indicando l’assoluzione. fonte: quotidianodigela.it
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