Non si salva dalla condanna per diffamazione il giornalista che riprende una notizia da un blog senza verificarla con l'incrocio di più fonti e facendo affidamento sul fatto che il suo contenuto è stato rimbalzato anche da altri siti. Lo afferma la Cassazione confermando la condanna nei confronti di un cronista autore di un libro sui movimenti di estrema destra: aveva scritto che un neofascista milanese era stato accusato di tentato omicidio.
La vicenda fino all'ultimo grado di giudizio.
Questo fatto, ricorda la Suprema Corte, non era mai avvenuto e il cronista, dopo essere stato denunciato dalla parte lesa che riteneva di essere stata danneggiata dalla pubblicazione della notizia falsa nell'imminenza della sua candidatura politica nel 2011 con An, era stato condannato in primo grado dal Tribunale di Trento, nel 2014.
L'entità della pena non è nota, così come l'ammontare del risarcimento danni, ma si sa che la Corte di Appello di Trento, nel 2015, l'aveva ridotta con la concessione delle attenuanti generiche. Contestando la condanna davanti alla Suprema Corte, la difesa ha fatto presente che "l'imputato, iscritto all'Ordine dei giornalisti da trent'anni, non risulta essere mai stato condannato per diffamazione, mentre la notizia pubblicata era già apparsa su almeno una decina di siti internet, senza mai essere smentita" e dunque il cronista non poteva essere accusato di "omessa verifica".
Il legale del querelante, invece, ha obiettato che "la tesi che vorrebbe l'imputato aver ritenuto vere le notizie già pubblicate per il solo fatto che non risultassero essere state contestate, costituisce un'assurdità sul piano logico, e si risolve nella concreta ammissione da parte sua di non aver compiuto verifiche di sorta". I supremi giudici osservano che in base alle sue dichiarazioni, il cronista aveva detto di "affidarsi normalmente al rilievo empirico dell'esistenza di una pluralità di fonti", mentre nel caso specifico "'aveva fatto gioco la circostanza della pregressa pubblicazione della notizia" su un sito e "poi riportata da più siti e blog, sino ad ammettere che quella era stata l'unica fonte effettiva e che altre non ve ne erano".
"Fatto sta - osserva il verdetto 52565 - che l'imputato si accontentò di quel che 'aveva fatto gioco, e che, a prescindere da come egli fosse aduso regolarsi, non poteva comunque intendersi sufficiente per fondare un suo ragionevole affidamento sulla rispondenza al vero della notizia". "Si trattava infatti - conclude l'Alta Corte - di svolgere accertamenti di estrema facilità su un episodio di cui, ove si fosse verificato realmente, sarebbero rimasti giocoforza plurimi riscontri sulle pagine di cronaca dei quotidiani, anche con riguardo alle scansioni successive delle indagini e del processo che avrebbe dovuto derivarne".